Borges, il “teologo ateo”
Il cardinale Gianfranco Ravasi analizza il percorso letterario dello scrittore argentino evidenziandone la vena religiosa già intravista da Leonardo Sciascia
MARIA TERESA PONTARA PEDERIVA
TRENTO
Nel 1965 l’allora professor Jorge Mario Bergoglio, 29 anni, insegnava lettere nel Colegio de la Immaculata Concepciòn di Santa Fe, un’importante città portuale argentina posta alla confluenza tra il Rio Salado e il Rio Paranà, a nord-ovest della capitale. Un giorno quel docente – che gli allievi avevano soprannominato «carucha» (faccia da bambino) per via del suo aspetto molto giovanile – ebbe l’idea di fare un esperimento didattico invitando a tenere un ciclo di lezioni agli studenti nientemeno che il celebre scrittore argentino Jorge Luis Borges (Buenos Aires 1899-Ginevra 1986), il quale accolse, non senza esitazione, la proposta di quel gesuita a lui sconosciuto. L’esperienza si rivelò talmente intensa che Borges rimase a Santa Fe per un’intera settimana per spiegare ai ragazzi la tecnica della stesura di un racconto e nello stesso anno l’editore argentino Maktub pubblicava i loro lavori con il titolo “Racconti originali” e prefazione di Borges. «Altri menino vanto delle parole che hanno scritto; il mio orgoglio sta in quelle che ho letto», sarà una delle sue massime successive.
A raccontare i particolari di questo incontro è il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia sacra, in un volume che giunge in libreria per i tipi delle Edizioni Dehoniane di Bologna. Il motivo è presto detto: ben prima di aver visto la foto che ritraeva il giovane Bergoglio con lo scrittore – mostratagli direttamente da Papa Francesco – Ravasi confessa di aver provato curiosità per il famoso scrittore che sbrigativamente definiva se stesso come agnostico, ma che in realtà era apparso per tutta la vita attratto dai temi teologici e in particolare dai testi sacri. Di qui la scelta di una ricerca più approfondita e sistematica proprio sulla filigrana religiosa che si intuisce dalle (vastissime) pagine borgesiane per raggiungere il Borges «teologo ateo», secondo l’espressione di un altro scrittore, a lui simpatetico, Leonardo Sciascia.
Il risultato, come scrive l’autore, vuole essere «soltanto uno sguardo essenziale ed emblematico, destinato non agli specialisti, ma a chi ha una conoscenza limitata di questo grande scrittore che non ebbe mai il Nobel e che ha costituito, invece, uno dei punti di riferimento più originali della cultura del suo tempo». E’ un percorso libero, non accademico (non un’esegesi critica, bensì «un viaggio tra sabbie mobili») che costituisce piuttosto un invito per avviare una conoscenza più diretta delle opere di Borges, la cui vocazione alla scrittura viene definita «quasi sacerdotale».
Scorrendo le pagine, all’interno di un panorama letterario ed esistenziale di vaste proporzioni, si viene condotti per mano da monsignor Ravasi – vero lettore appassionato – lungo le strade percorse dallo scrittore argentino: è un cammino fra storia e mito, «una parabola che intreccia l’universo esterno e l’io personale», un mondo dove le frontiere sono sempre labili e «non c’è mai una cortina di ferro tra verità e finzione, tra veglia e sonno, tra realtà e immaginazione, tra razionalità e sentimento, tra essenzialità e ramificazione, tra concreto e astratto, fra teologia e letteratura fantastica, tra icasticità anglosassone ed enfasi barocca …». Fino al paradosso supremo: «La vita è troppo povera per non essere anche immortale».
Un primato indiscusso fu assegnato da Borges proprio alla Bibbia, come rivelerà in un’intervista a María Esther Vázquez: «Devo ricordare mia nonna (Fanny Haslam Arnett, inglese e anglicana, ndr) che conosceva a memoria la Bibbia, in modo che io possa dire di essere entrato nella letteratura attraverso la via dello Spirito Santo».
In una conferenza tenuta ad Harvard nel 1969 lo scrittore riconduceva ad un trittico le opere fondamentali per l’umanità: l’Iliade, l’Odissea e i Vangeli («Credo che la storia di Cristo non potrebbe essere narrata meglio»).
Se il linguaggio poetico è analogo a quello sacro, Ravasi considera del tutto legittimo un interrogativo circa la sua «fede». E sono tante le espressioni che il cardinale rinviene nell’opera - come quella battuta dell’Aleph (1949) per la quale «morire per una religione è più semplice che viverla con pienezza» - tanto che conclude: «È indiscutibile che la Bibbia abbia offerto a Borges una specie di lessico tematico, simbolico, metaforico, archetipo e persino stilistico-retorico».
Dal libro di Giobbe – con ogni probabilità il suo preferito – all’Ecclesiaste: i libri biblici, come pure la Divina Commedia di Dante, sono compagni di viaggio nelle esplorazioni esistenziali dello scrittore fino al crepuscolo della vita quando scriverà i versi del «Cristo in croce», datandoli Kyoto 1984: versi di alta tensione spirituale, sottolinea il cardinale, ampiamente citati quando si vuole definire il suo rapporto con quel Cristo che non ha mai incontrato pienamente, ma la cui umanità ha costituito per lui una luce.
«Borges non aveva assolutamente “l’asprezza feroce” dell’ateo, ma la sua era una ricerca certamente implicita ma forse più intensa di quella di molti credenti pallidi e incolori». Anzi, con la familiarità del biblista, Ravasi lo accosta (anche per via della cecità che l’aveva colpito da anziano) al veggente Balaam definito come «un uomo dall’occhio chiuso (shetum)», mentre l’antica versione della Bibbia aveva letto «perfetto (shettam)»: proprio perché chiuso lo sguardo di questo profeta laico era capace di penetrare la realtà e coglierne il suo significato più profondo. E’ proprio «questa la sfida di Borges che non poteva non scontrarsi, tra le sabbie e le oscurità, con la roccia e la luce del trascendente, dell’eterno e dell’assoluto».
Fuente : La Stampa
Jorge Luís Borges por Italo Calvino
1984 - Borges en Italia
1984 - Borges en Italia
La fortuna de Jorge Luís Borges en Italia tiene ya una historia de treinta años: comienza en realidad en 1955, fecha de la primera traducción de Ficciones, bajo el título La biblioteca di Babele en las ediciones Einaudi, y culmina hoy con la edición de su obra completa en los «Meridiani» Mondadori. Que yo recuerde fue Sergio Solmi quien después de haber leído los cuentos de Borges en traducción francesa habló de ellos con entusiasmo a Elio Vittorini, quien propuso enseguida la edición italiana, encontrando un traductor apasionado y congenial en Franco Lucentini. Desde entonces los editores italianos han rivalizado en la publicación de los volúmenes del escritor argentino, en traducciones que ahora Mondadori reúne junto con otros textos hasta este momento jamás traducidos; de esta que será la edición más completa de su opera omnia hasta hoy existente, ve la luz justamente en estos días el primer volumen al cuidado de un amigo muy fiel, Domenico Porzio
.La fortuna editorial ha ido acompañada de una fortuna literaria que es al mismo tiempo su causa y su efecto. Pienso en los tributos de admiración de escritores italianos, incluso de los más alejados de él por su poética; pienso en los intentos serios de dar una definición crítica de su mundo; y pienso también y sobre todo en la influencia que han tenido en la creación literaria italiana su gusto y su idea misma de literatura: podemos decir que muchos de los que han escrito en estos últimos veinte años, a partir de los pertenecientes a mi propia generación, han estado profundamente marcados por ellos.
¿Qué ha determinado este encuentro entre nuestra cultura y una obra que encierra en sí un conjunto de patrimonios literarios y filosóficos en parte familiares para nosotros, en parte insólitos, y los traduce en una clave que desde luego estaba muy alejada de las nuestras? (Hablo de una lejanía de entonces, respecto de los senderos trillados de la cultura italiana en los años cincuenta.)
Sólo puedo responder apelando a mi memoria, tratando de reconstruir lo que ha significado para mí la experiencia de Borges desde los comienzos hasta hoy. Experiencia cuyo punto de partida y punto de apoyo son dos libros, Ficciones y El Aleph, es decir ese género literario particular que es el cuento borgiano, para pasar después al Borges ensayista, no siempre bien separable del narrador, y al Borges poeta, que contiene a menudo núcleos de cuentos y en todo caso un núcleo de pensamiento, un diseño de ideas.
Empezaré por el motivo de adhesión más general, es decir el haber reconocido en Borges una idea de la literatura como mundo construido y gobernado por el intelecto. Esta idea va contra la corriente principal de la literatura mundial de nuestro siglo, que toma en cambio una dirección opuesta, es decir quiere darnos el equivalente de la acumulación magmática de la existencia en el lenguaje, en el tejido de los acontecimientos, en la exploración del inconsciente. Pero hay también una tendencia de la literatura de nuestro siglo, ciertamente minoritaria, que ha tenido su sostenedor más ilustre en Paul Valéry —pienso sobre todo en el Valéry prosista y pensador— que apunta a un desquite del orden mental sobre el caos del mundo. Podría tratar de rastrear las señales de una vocación italiana en esta dirección, desde el siglo XIII hasta el Renacimiento, el siglo XVII, el siglo XX, para explicar cómo descubrir a Borges fue para nosotros ver realizada una potencialidad acariciada desde siempre: ver cómo cobra forma un mundo a imagen y semejanza de los espacios del intelecto, habitado por un zodiaco de signos que responden a una geometría rigurosa.
Pero quizá para explicar la adhesión que un autor suscita en cada uno de nosotros, más que de grandes clasificaciones categoriales es preciso partir de razones más precisamente relacionadas con el arte de escribir. Entre ellas pondré en primer lugar la economía de la expresión: Borges es un maestro del escribir breve. Consigue condensar en textos siempre de poquísimas páginas una riqueza extraordinaria de sugestiones poéticas y de pensamiento: hechos narrados o sugeridos, aperturas vertiginosas sobre el infinito, e ideas, ideas, ideas. Cómo se realiza esta densidad, sin la más mínima congestión, en los párrafos más cristalinos, sobrios y airosos; cómo esa manera de contar sintéticamente y en escorzo lleva a un lenguaje de pura precisión y concreción, cuya inventiva se manifiesta en la variedad de ritmos, en los movimientos sintácticos, en los adjetivos siempre inesperados y sorprendentes: este es el milagro estilístico, sin igual en la lengua española, del cual sólo Borges posee el secreto.
Leyendo a Borges he tenido a menudo la tentación de formular una poética del escribir breve, elogiando su primacía sobre el escribir largo, contraponiendo los dos órdenes mentales que la inclinación hacia el uno y hacia el otro presupone, por temperamento, por idea de la forma, por sustancia de los contenidos. Me limitaré por ahora a decir que la verdadera vocación de la literatura italiana, la que preserva sus valores en el verso o la frase en que cada palabra es insustituible, se reconoce más en el escribir breve que en el escribir largo.
Para escribir breve, la invención fundamental de Borges, que fue también la invención de sí mismo como narrador, el huevo de Colón que le permitió superar el bloqueo que le había impedido, hasta los cuarenta años, pasar de la prosa ensayista a la prosa narrativa, fue fingir que el libro que quería escribir estaba ya escrito, escrito por otro, por un hipotético autor desconocido, un autor de otra lengua, de otra cultura, y describir, recapitular, reseñar ese libro hipotético. Forma parte de la leyenda de Borges la anécdota de que cuando apareció en la revista Sur el primer y extraordinario cuento escrito con esa fórmula, El acercamiento a Almotásim, se creyó que era realmente una reseña del libro de un autor indio. Así como forma parte de los lugares obligados de la crítica sobre Borges observar que cada texto suyo duplica o multiplica el propio espacio a través de otros libros de una biblioteca imaginaria o real, lecturas clásicas o eruditas o simplemente inventadas. Lo que más me interesa señalar aquí es que con Borges nace una literatura elevada al cuadrado y al mismo tiempo una literatura como extracción de la raíz cuadrada de sí misma: una «literatura potencial», para usar una expresión que se desarrollará más tarde en Francia, pero cuyos preanuncios se pueden encontrar en Ficciones, en los puntos de partida y fórmulas de las que hubieran podido ser las obras de un hipotético Herbert Quain.
Que para Borges sólo la palabra escrita tiene plena realidad ontológica, y que las cosas del mundo existen para él sólo en cuanto remiten a cosas escritas, ha sido dicho muchas veces; lo que quiero subrayar aquí es el circuito de valores que caracteriza esta relación entre mundo de la literatura y mundo de la experiencia. Lo vivido se valora en la medida en que se inspira en la literatura o en que repite arquetipos literarios: por ejemplo, entre una empresa heroica o temeraria de un poema épico y una empresa análoga vivida en la historia antigua o contemporánea, hay un intercambio que lleva a identificar y comparar episodios y valores del tiempo escrito y del tiempo real. En este cuadro se sitúa el problema moral, siempre presente en Borges como un núcleo sólido en la fluidez e intercambiabilidad de los escenarios metafísicos. Para este escéptico que parece degustar ecuánimemente filosofías y teologías sólo por su valor espectacular y estético, el problema moral vuelve a presentarse idénticamente, de un universo a otro, en sus alternativas elementales de coraje y vileza, de violencia provocada y sufrida, de búsqueda de la verdad. En la perspectiva borgiana, que excluye todo espesor psicológico, el problema moral aflora simplificado y casi en los términos de un teorema geométrico, en el que los destinos individuales trazan un diseño general que cada uno, antes de escoger, debe reconocer. Pero las suertes se deciden en el rápido tiempo de la vida real, no en el fluctuante tiempo del sueño, no en el tiempo cíclico o eterno del mito.
Y aquí ha de recordarse que del epos de Borges no forma parte solamente lo que se lee en los clásicos, sino también la historia argentina, que en algunos episodios se identifica con su historia familiar, con hechos de armas de sus antepasados militares en las guerras de la joven nación. En el «Poema conjetural», Borges imagina dantescamente los pensamientos de uno de sus antepasados maternos, Francisco Laprida, mientras yace en un pantano, herido, después de una batalla, acosado por los gauchos del tirano Rosas, y reconoce su propio destino en la muerte de Buonconte da Montefeltro, tal como la recuerda Dante en el canto V del Purgatorio. En un análisis puntual de este poema, Roberto Paoli ha observado que Borges se basa, más que en el episodio de Buonconte explícitamente citado, en un episodio contiguo del mismo canto V del Purgatorio, el de Jacopo del Cassero. La ósmosis entre hechos escritos y hechos reales no podría ejemplificarse mejor: el modelo ideal no es un acontecimiento mítico anterior a la expresión verbal, sino el texto como tejido de palabras, imágenes y significados, composición de motivos que se responden, espacio musical en el que un tema desarrolla sus variaciones.
Hay un poema todavía más significativo para definir esa continuidad borgiana entre acontecimientos históricos, epos, transfiguración poética, fortuna de los motivos poéticos y su influencia en el imaginario colectivo. Y este es también un poema que nos toca de cerca porque se habla del otro poema italiano que Borges ha frecuentado intensamente, el de Ariosto. El poema se titula «Ariosto y los árabes». Borges pasa revista al epos carolingio y al bretón que confluyen en el poema de Ariosto, quien planea sobre estos motivos de la tradición montado en el Hipogrifo, es decir hace de ellos una transfiguración fantástica, al mismo tiempo irónica y llena de pathos. La fortuna del Orlando furioso desplaza los sueños de las leyendas heroicas medievales a la cultura europea (Borges cita a Milton como lector de Ariosto), hasta el momento en que los que habían sido sueños de los ejércitos enemigos de Carlomagno, es decir del mundo árabe, toman la delantera: Las mil y una noches conquistan a los lectores europeos ocupando el lugar del Orlando furioso en el imaginario colectivo. Hay pues una guerra entre los mundos fantásticos de Occidente y de Oriente que prolonga la guerra histórica entre Carlomagno y los sarracenos, y ahí es donde Oriente se toma su desquite.
El poder de la palabra escrita se vincula pues con lo vivido como origen y como fin. Como origen porque se convierte en el equivalente de un acontecimiento que de otro modo sería como si no hubiese sucedido; como fin porque para Borges la palabra escrita que cuenta es la que tiene un fuerte impacto sobre la imaginación, como figura emblemática o conceptual hecha para ser recordada y reconocida cada vez que aparezca en el pasado o en el futuro.
Estos núcleos míticos o arquetipos, que probablemente se pueden calcular en un número finito, se destacan sobre el fondo inmenso de los temas metafísicos más caros a Borges. En cada uno de sus textos, por todas las vías, Borges termina hablando del infinito, de lo innumerable, del tiempo, de la eternidad o de la simultaneidad o carácter cíclico de los tiempos. Y aquí vuelvo a referirme a lo que decía al principio sobre la máxima concentración de significados en la brevedad de sus textos. Tomemos un ejemplo clásico del arte borgiano: su cuento más famoso, «El jardín de senderos que se bifurcan». La intriga visible es la de un cuento de espionaje convencional, una intriga de aventuras condensada en una docena de páginas y un poco tirada de los cabellos para llegar a la sorpresa del final. (El epos que Borges utiliza comprende también las formas de la narrativa popular.) Este cuento de espionaje incluye otro cuento en el que el suspense es de tipo lógico-metafísico y el ambiente chino: se trata de la busca de un laberinto. Este cuento incluye a su vez la descripción de una interminable novela china. Pero lo que más cuenta en este compuesto ovillo narrativo es la meditación filosófica sobre el tiempo que en él transcurre, más aún, la definición de las concepciones del tiempo que sucesivamente se enuncian. Al final comprendemos que lo que habíamos leído es, bajo la apariencia de un thriller, un cuento filosófico e incluso un ensayo sobre la idea del tiempo.
Las ideas del tiempo que se proponen en «El jardín de senderos que se bifurcan», cada una contenida (y casi oculta) en pocas líneas, son: una idea de tiempo puntual como un presente subjetivo absoluto («Después reflexioné que todas las cosas le suceden a uno precisamente, precisamente ahora. Siglos de siglos y sólo en el presente ocurren los hechos; innumerables hombres en el aire, en la tierra y el mar, y todo lo que realmente pasa me pasa a mí...»); después una idea de tiempo determinado por la voluntad, el tiempo
de una acción decidida de una vez por todas en la que el futuro se presenta irrevocable como el pasado; y por fin la idea central del cuento: un tiempo plural y ramificado en el que cada presente se bifurca en dos futuros, de manera de formar «una red creciente y vertiginosa de tiempos divergentes, convergentes y paralelos». Esta idea de infinitos universos contemporáneos en los que todas las posibilidades se realizan en todas las combinaciones posibles no es una digresión del cuento sino la condición misma de que el protagonista se sienta autorizado a ejecutar el delito absurdo y abominable que su misión de espía le impone, seguro de que ello sólo ocurre en uno de los universos, pero no en los otros, más aún, que ejecutándolo aquí y ahora, él y su víctima podrán reconocerse amigos y hermanos en otros universos.
Esa concepción del tiempo plural es cara a Borges porque es la que reina en la literatura, más aún, es la condición que hace posible la literatura. El ejemplo que voy a dar se relaciona una vez más con Dante, y es un ensayo de Borges sobre Ugolino della Gherardesca, y más precisamente sobre el verso Poscia, più che il dolor, poté il digiuno [«Después, más que el dolor, pudo el ayuno»], y lo que se calificó de «inútil controversia» sobre el posible canibalismo del conde Ugolino. Revisando la opinión de muchos de los comentadores, Borges concuerda con la mayoría de ellos en que el verso debe entenderse en el sentido de la muerte de Ugolino por inanición. Pero añade: el que Ugolino pudiera comerse a sus propios hijos, Dante, aun sin querer que lo tomemos por verdadero, ha querido que lo sospecháramos «con incertidumbre y temor». Y Borges enumera todas las alusiones al canibalismo que se suceden en el canto XXXIII del Infierno, empezando por la visión inicial de Ugolino royendo el cráneo del arzobispo Ruggieri.
El ensayo es importante por las consideraciones generales con que termina. En particular (y es una de las afirmaciones de Borges que más coincide con el método estructuralista) la de que el texto literario consiste exclusivamente en la sucesión de palabras que lo componen, por lo cual «de Ugolino debemos decir que es una estructura verbal que consta de unos treinta tercetos». Después la que se relaciona con las ideas muchas veces sostenidas por Borges sobre la impersonalidad de la literatura para argüir que «Dante no supo mucho más de Ugolino que lo que sus tercetos refieren». Y finalmente la idea a la que quería llegar, que es la del tiempo plural: «En el tiempo real, en la historia, cada vez que un hombre se enfrenta con diversas alternativas opta por una y elimina y pierde las otras: no así en el ambiguo tiempo del arte, que se parece al de la esperanza y al del olvido. Hamlet, en ese tiempo, es cuerdo y es loco. En la tiniebla de su Torre del Hambre, Ugolino devora y no devora los amados cadáveres, y esa ondulante imprecisión, esa incertidumbre, es la extraña materia de que está hecho. Así, con dos posibles agonías, lo soñó Dante y así lo soñarán las generaciones».
Este ensayo está contenido en un libro publicado en Madrid y todavía no traducido en Italia, que recoge los ensayos y las conferencias de Borges sobre Dante: Nueve ensayos dantescos. El estudio asiduo y apasionado del texto capital de nuestra literatura, la participación congenial con que ha sabido aprovechar el patrimonio dantesco para su meditación crítica y su obra de creación, son una de las razones, aunque no la última, por la que Borges es aquí celebrado y por eso le expresamos una vez más con emoción y con afecto nuestro reconocimiento por el alimento que sigue dándonos.
Italo Calvino - 1984
Fuente : Ignoria – Biblioteca Hogar
9 de octubre de 2011
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