El último verano en la ciudad fue comprado y traducido a Francia por Gallimard, así como por veinte países, incluidos Estados Unidos, Inglaterra, Holanda, España, Grecia e Israel.
El relato del lúgubre desencanto de un joven a la sombra de los palacios de Roma, firmado en 1973 por Gianfranco Calligarich
¿Quién ganará el próximo Premio Strega? Yo asignaría la edición de 2010, y cuatro o cinco de las que vendrán, a una novela redescubierta por la editorial turinesa Aragno, que Garzanti había publicado originalmente en 1973.
Se llama “El último verano en la ciudad”, y en su momento ganó el premio “L'inedito”, impulsado por los juicios entusiastas de Natalia Ginzburg y Cesare Garboli. Su autor, Gianfranco Calligarich, hizo entonces otra cosa en su vida, principalmente escribiendo dramas Rai, y luego fundó el Teatro del Siglo XX en la Fontanone del Gianicolo.
Me acerqué a él con la esperanza y el miedo de encontrar allí una historia y en cierta medida un viático de la vida romana, como me sucedió en su momento con “La giudia”, de Sandro De Feo, reeditado por Avagliano. Y sin duda “El último verano en la ciudad” es también una novela de iniciación. Pero son años y épocas diferentes, y al final el libro es de un tipo completamente diferente, no sólo más desencantado, sino también más amargo y desesperado, suspendido en la loma que divide la onda larga de la "Dolce Vita" y la furia de la segunda mitad de los '70.
Calligarich, apátrida como es, se encuentra de hecho en una "tierra de nadie". El que es de Asmara, construye para su personaje con nombre de película policiaca, Leo Gazzarra, un fondo milanés, en una de esas familias tristemente fieles a su “must be”. Roma, con su inagotable hipótesis de libertad, parece acogerlo con su verano interminable, sus salones, sus chicas, sus días dorados en los que sólo duele la idea de tener que trabajar. Pero Leo no es Marcello, en todo caso se parece a Luciano Bianchi de “La vita agra”, sutilmente anarcoide, destinado a no ser encontrado en ninguna vida. Y la existencia que lleva a Roma, entre trabajos insatisfactorios, compañías alcohólicas, desprecio por la sociedad de las cenas en la terraza y el amor por Arianna, una niña frágil, al borde de la neurastenia,
Gran libro nihilista, que investiga la relación entre un individuo y una ciudad, entendida como un número humano infinito e imposible, un lugar de no encuentro y maldita soledad, el "Último verano en la ciudad" llega a un punto en que se vuelve tan doloroso que No sé más si sigues leyendo. Estas son las páginas de la muerte de Graziano, un poco suicidado por la sociedad y un poco víctima de la banalidad de la vida, que quedó horas después de una caída en el pavimento de un patio a mediados de agosto, mientras el portero intercambia su porrazo con un ruido procedente de los apartamentos. ¿Era ya así, Leo, cuando salió de Milán, o fue Roma la que construyó a su alrededor su historia privada de condenación, que consumirá en el fondo de aquella playa donde por primera vez fue plenamente feliz? como si fuera "el forastero"
Después de Roma, Leo parece darse cuenta de que ya no hay lugar en el mundo donde pueda encontrar "su" lugar: no tiene sentido volver al Norte del deber ser, y el Sur del ser se revela en toda su inevitabilidad, como un arma de un solo disparo. La prosa de Calligarich es definitiva, y parece "producir en masa" para cada capítulo un epigrama para ser memorizado:
“Después de todo, siempre es así. Uno hace de todo para mantenerse al margen y luego un día, sin saber cómo, se encuentra en una historia que lo lleva directo al final”.
El final del libro se reencuentra al principio, como en todas las narraciones necesarias, que no podrían ir de otra manera, que no dejan salida, y en realidad no importa ser ingenuo o, por el contrario, extremadamente inteligente, astuto cae de todos modos. Tiene el poder de una larga invectiva resignada, que se desarrolla página tras página, incluso cuando el protagonista dice que no tiene recriminaciones y que ha jugado sus cartas. Es una historia que no conoce un momento de "ficción", de huida de la realidad, quizás precisamente porque habla de un mundo en el que la realidad ha sido privada de sentido, a causa de un cinismo volátil, que por momentos parece ceder. casi la embriaguez, pero que entonces la embriaguez imperecedera os pide ser "soportadas".
http://www.calligarichgianfranco.com/index.php?option=com_content&view=article&id=46:la-riscoperta-de-l-ultima-estate-in-citta&catid=19&Itemid=123
La riscoperta de L'ultima estate in città'
Il racconto di cupo disincanto di una giovinezza all'ombra dei palazzi di Roma, firmato nel 1973 da Gianfranco Calligarich
Chi vincerà il prossimo Premio Strega? Io assegnerei l’edizione 2010, e quattro o cinque di quelle a venire, a un romanzo riscoperto dall’editore torinese Aragno, e che Garzanti aveva originariamente pubblicato nel 1973.
Si chiama “L’ultima estate in città”, e vinse a suo tempo il premio “L’inedito”, sospinto dai giudizi entusiasti di Natalia Ginzburg e Cesare Garboli. Il suo autore, Gianfranco Calligarich, poi nella vita ha fatto altro, firmando soprattutto sceneggiati Rai, per poi fondare, al Fontanone del Gianicolo, il Teatro XX Secolo.
Mi ci sono avvicinato con la speranza e il timore di trovarvi un racconto e in qualche misura un viatico di vita romana, come mi era capitato a suo tempo con “La giudia”, di Sandro De Feo, ridato alle stampe da Avagliano. E indubbiamente anche “L’ultima estate in città” costituisce un romanzo di formazione. Ma diversi sono gli anni e l’epoca, e il libro alla fine risulta di tutt’altra pasta, non solo più disincantato, ma anche più amaro e disperato, sospeso sul crinale che divide l’onda lunga della “Dolce vita” e la rabbia della seconda parte degli Anni '70.
Calligarich, da apolide qual è, sta in effetti in una "terra di nessuno". Lui che è dell’Asmara, costruisce per il suo personaggio con il nome da film poliziottesco, Leo Gazzarra, un background milanese, in una di quelle famiglie malinconicamente fedeli al proprio "dover essere". Roma, con la sua inesauribile ipotesi di libertà, sembra accoglierlo con la sue estate infinita, i suoi salotti, le sue ragazze, le sue giornate d’oro in cui solo l’idea di dover lavorare fa male. Però Leo non è Marcello, semmai assomiglia al Luciano Bianchi de “La vita agra”, sottilmente anarcoide, destinato a non ritrovarsi in qualsiasi vita. E l’esistenza che conduce a Roma, tra mestieri inappaganti, compagnie alcoliche, disprezzo per la società delle cene in terrazza e l’amore per Arianna, una ragazza fragile, sull’orlo della nevrastenia, lo trascina nell’alcolismo, e all’odio sistematico per l’impossibilità di cambiare le cose.
Grande libro nichilista, che indaga il rapporto tra un individuo e una città, intesa come numero umano infinito e impossibile, luogo di non incontro e di dannata solitudine, l’ “Ultima estate in città” a un certo punto diventa talmente dolente che non sai più se continuare a leggerlo. Sono le pagine della morte di Graziano, un po’ suicidato dalla società e un po’ vittima della banalità della vita, rimasto ore dopo una caduta sul selciato di un cortile di ferragosto, mentre il portiere scambia il suo tonfo con un rumore proveniente dagli appartamenti. Era già così, Leo, quando è partito da Milano, o è stata Roma a costruirgli attorno la sua storia privata di dannazione, che consumerà in fondo a quella spiaggia dove per la prima volta è stato pienamente felice? come se fosse "lo straniero" di Camus che rivolge contro sé stesso il senso dell’indifferenza del mondo, senza trovarvi più nulla di dolce?
Dopo Roma, Leo sembra accorgersi che non esiste più un luogo al mondo dove può ritrovare il "suo" posto: non ha senso tornare al Nord del dover essere, e il Sud dell’essere si disvela in tutta la sua ineluttabilità, come una pistola con un solo colpo. La prosa di Calligarich è definitiva, e sembra "sfornare" a ogni capitolo un epigramma da mandare a memoria:
“Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine”.
Il finale del libro si riannoda all’inizio, come in tutte le narrazioni necessarie, che non potevano andare in altra maniera, che non lasciano scampo, e non ha molta importanza essere ingenui o, al contrario, estremamente intelligenti, accorti: tanto ci si casca lo stesso. Ha il potere di una lunga invettiva rassegnata, che si snoda pagina dopo pagina, anche quando il protagonista dice di non avere recriminazioni e di essersi giocato le sue carte. È una storia che non conosce un attimo di "finzione", di fuga dalla realtà, forse proprio perché parla di un mondo in cui la realtà è stata deprivata di senso, in ragione di un cinismo volatile, che a tratti sembra dar quasi l’ebbrezza, ma che poi ebbrezza imperitura ti chiede per essere "sopportato".
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